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Sebbene i Vangeli che ci sono arrivati siano stati scritti direttamente in greco, spesso riportano in forma traslitterata espressioni aramaiche. E Marco non fa eccezione. Anzi, solo lui riporta in 5,41, la famosa espressione “Talità kum”:

Presa la mano della bambina, le disse: «Talità kum» (ταλιθα κουμ), che significa: «Fanciulla, io ti dico, alzati!».

Nel suo Vangelo, Marco registrerà ben altre cinque espressioni aramaiche: korbàn - sacrificio dedicato a Dio (Mc, 7,11), Effathà - apriti! (Mc, 7,34), gē-hinnom - valle dell'Hinnom (Mc, 9,43), abbà - papà (mc 14,35), Eloi, Eloi, lema sabactani? - Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? (Mc 15,34).

Questi elementi lessicali oltre a confermare la storicità di quanto narrato, costituiscono nell’intento dell’evangelista un efficace espediente narrativo per far entrare il lettore nel vivo del racconto e fare ascoltare la viva voce del Maestro, così come risuonava veramente nelle orecchie dei suoi contemporanei. 

Gesù parlava in aramaico, l’aramaico era la sua lingua madre. Ma gli esegeti sono convinti che conoscesse anche l’ebraico e parlasse, per motivi lavorativi (era carpentiere nel Nord di Israele) anche il greco. Addirittura qualcuno ipotizza, sulla base di un’attenta analisi del dialogo con Ponzio Pilato, che conoscesse anche la lingua dei dominatori, il latino dei Romani.

Mc 4,41 in greco Ritornando al nostro “Talità kum”, ταλιθα κουμ, agli esperti non è sfuggito l’errata forma verbale κουμ, qūm non coniugata al femminile (l’aramaico e lebraico conoscono la forma femminile anche alla seconda persona), riferendosi alla “fanciulla”. Da questo alcun esegesi anno dedotto che Marco avesse una scarsa conoscenza dell’aramaico, perché avrebbe dovuto traslitterare koumi, come riporta ad esempio in latino anche la Vulgata sforzandosi di correggere, e come si può vedere nella retroversione ebraica del Vangelo in cui leggiamo Talità’ qumi

  טַלְיְתָא קוּמִי

Marco quindi davvero non conosceva l’aramaico? In realtà è attestato che l’aramaico comunemente parlato al tempo di Gesù contemplava anche la forma indistinta tra feminile e maschie nel verbo imperativo e spesso ometteva la pronuncia (anche se correttamente scritto) della  -ī finale. Questo particolare notazione linguistica conferma al contrario che l’evangelista usando la grafia greca abbia tentato di riprodurre proprio il suono della parola usata da Gesù e ben intesa dai presenti. Il suo intento infatti non era filologico ma narrativo, oggi diremmo quasi giornalistico. Da bravo regista in presa diretta ci introduce nella scena, completa di fotografia e colonna sonora.

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