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La parashà Nasò, נָשֹׂא “si faccia il compito”, Nm 4,21-7,89, è la porzione più lunga di tutta la Torah. Ricchissima di contenuti. Continua il censimento dei leviti maschi dai 30 ai 50 anni, uomo per uomo, per un totale di 80.580 persone, e l’assegnazione ad ogni loro famiglia di compiti specifici relativi alle mansioni della tenda del convegno (4,21-49). Ritornano le regole sulla lebbra e le sanzioni per i peccati (5,1-10), tra cui l’accurata  descrizione della “legge di gelosia” (4,11-31), una sorte di ordalia che in realtà mirava a preservare la solidità del contratto matrimoniale e a consolidare i legami familiari. Si parla del voto di nazireato (6,1.21) e si prescrive la famosissima formula di benedizione sacerdotale suo popolo (6,22-27). Il censimento, infine, si conclude con un grande rito sacrificale che durava 12 giorni in cui tutti i principi di ogni famiglia, uno al giorno, offrivano a Dio argento, oro, animali e libagioni (7,1-89). 

Interessante in questo lungo elenco di nomi e di compiti che precede la partenza per il lungo viaggio verso la terra promessa, è l’accuratezza con cui tutto il lavoro necessario per muoversi all’unisono e spostare la tenda della presenza di Dio sia equamente distribuito tra tutti i membri del popolo, ognuno sotto la guida di un capo famiglia. Un bella testimonianza di collaborazione e servizio nella comunità, che Daniele Salamone, nel suo commento settimanale, sottolinea come pratica fondamentale anche per le nostre chiese: bando a ogni individualismo ed egoismo, ognuno impari a portare reciprocamente i fardelli del proprio fratello, come insegna San Paolo in Galati 6,2: Portate i pesi gli uni degli altri, e così adempirete la legge di Cristo”.

 

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Per lo studio ci soffermiamo sul titolo della parashà: נָשֹׂא. Si tratta di un infinito assoluto del verbo נָשָֹא, già visto altre volte. Non propriamente un imperativo: “enumera!” come molti traducono. Equivarrebbe piuttosto a un più impersonale “si faccia il computo”, come giustamente traduce la Bibbia Cei del 2008. Tuttavia l’infinito assoluto viene usato qualche volta, come in questo caso, per esprimere di fatto un comando.

Lo abbiamo già incontrato in Es 20,8 dove viene dato il secondo “comandamento”: זָכוֹר אֶת־יוֹם הַשַּׁבָּת לְקַדְּשֽׁ  ַsachòr et-yòm hashab ricòrdati del giorno del riposo”. Un altro interessante uso dell’infinito assoluto è quello di farlo precedere ad un verbo finito per rafforzarlo, come nel caso di Gen 2,17: “morire, morirai” מוֹת תָּמֽוּת, mot tamùt. Come a dire “di morire, certamente morirai”.

שַׁבָּת שָׁלוֹם

 
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